Il talento per la scienza è qualcosa di diverso dall’immaginario collettivo, è un risultato maturato nel tempo e che richiedi notevoli sforzi. Lo svilupparsi di un talento dipende dai nostri sforzi e anche da una base genetica, che va, però, intesa diversamente da come si pensa.
Nelle conversazioni comuni è solito fare riferimento al “talento” quando si parla di persone che hanno ottenuto eccezionali traguardi. Si afferma che il talento sia un dono, che non ci possa essere un modo per insegnarlo. A tal punto può essere interessante chiedersi cosa la scienza pensa di ciò. Lo psicologo Anders Ericsson della Florida State University e lo scrittore Robert Pool hanno affrontato questa tematica in un nuovo libro: “Peak: Secrets from the New Science of Expertise”. Quanto riportato dallo scrittore e dallo psicologo è che, ad eccezione dell’altezza e delle dimensioni del corpo, l’idea che siamo limitati da fattori genetici – talento innato – è un mito pernicioso. “La convinzione che le proprie abilità siano limitate dalle proprie caratteristiche geneticamente prescritte… si manifesta in dichiarazioni del tipo “Non posso” o “Non sono”,” scrivono Ericsson e Pool. La chiave per prestazioni straordinarie, sostengono, è “migliaia e migliaia di ore di duro lavoro focalizzato”.
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L’importanza della formazione e dell’impegno
A queste affermazioni sono state associate anche delle dimostrazioni pratiche molto efficaci, tra cui cito la seguente: Uno psicologo giapponese Ayako Sakakibara ha iscritto 24 bambini di una scuola di musica privata di Tokyo in un programma di formazione progettato per addestrare “l’orecchio assoluto” – la capacità di identificare l’altezza (la frequenza fondamentale di una nota musicale o di un suono che viene percepita) assoluta di un suono. Alla fine dello studio, i bambini sembravano avere raggiunto l’obiettivo. Sulla base di questi risultati, Ericsson e Pool concludono che “la chiara implicazione è che l’orecchio assoluto, lungi dall’essere un dono concesso solo a pochi fortunati, è un’abilità che praticamente chiunque può sviluppare con la giusta formazione“.
Comprendere questo tipo di prove è fondamentale per la nostra formazione, ci permette di capire che è solo questione di quanto siamo disposti a sacrificarci per ottenere dei risultati. Nel 1912, Edward Thorndike, il fondatore della psicologia educativa, ha scritto che “rimaniamo lontani da quelle che possono essere le nostre possibilità in quasi tutto quello che facciamo… non perché una corretta pratica non ci migliorerebbe ulteriormente, ma perché non prendiamo la formazione o perché la prendiamo con troppo poco zelo.” . E, in Peak, Ericsson e Pool scrivono che “praticamente in qualsiasi area dell’impegno umano, le persone hanno un’elevatissima capacità di migliorare le loro prestazioni, purché si allenino nel modo giusto.”.
Quindi il talento innato è un mito?
Ma il fatto che la formazione porti a miglioramenti, anche enormi, nel livello di abilità significa che il talento innato è un mito? Questo è un argomento scientifico molto più difficile da trattare. Come sempre accade nei dibattiti scientifici, il problema è nei dettagli del dibattito sulle origini della competenza. Per intenderci, potrebbe darsi che le nostre passioni, a seconda della loro intensità, possano portarci ad una maggiore dedizione in determinati settori e quindi maggiori probabilità di successo; ed ecco che si parla di “talento”… o almeno questo è quello che si ipotizza.
Quali influenze possono avere i fattori genetici?
Quello che risulta dalle prove è che la formazione è necessaria per diventare un esperto, ma che i fattori genetici possono svolgere un ruolo importante a tutti i livelli di competenza, dal principiante al professionistico. Ci sono prove sia indirette che dirette a sostegno di questa visione “multifattoriale” dell’esperienza. (Il modello prende il nome di “Modello di Interazione Multifattoriale Gene-Ambiente”, o MGIM) L’evidenza indiretta si presenta sotto forma di grandi differenze individuali negli effetti della formazione sul rendimento. In altre parole, alcune persone necessitano molta più formazione di altre persone per acquisire un determinato livello di abilità. Lo studio di Sakakibara fornisce alcune prove molto convincenti. C’era una grande quantità di variabilità di in quanto tempo i bambini siano riusciti a superare il test per l’orecchio perfetto – da circa 2 anni a 8 anni. Come osserva Sakakibara nel suo studio, questa evidenza implica che fattori diversi dell’allenamento possono essere stati coinvolti nel raggiungimento dell’obiettivo, inclusi i fattori genetici. Questo risultato è coerente con i risultati delle recenti revisioni del rapporto tra pratica deliberata e abilità, che includono numerosi studi che Ericsson e colleghi hanno usato per sostenere l’importanza della pratica deliberata.
L’evidenza più diretta per la visione multifattoriale delle competenze deriva dalla ricerca “geneticamente informativa” sugli studi di abilità che stimano il contributo dei fattori genetici alla variazione tra le persone in fattori che possono influenzare le prestazioni degli esperti. In una serie pionieristica di studi, la genetista australiana Kathryn North e i suoi colleghi hanno trovato una significativa associazione tra una variante di un gene (chiamato ACTN3) espresso in fibre muscolari a contrazione rapida e prestazioni d’elite in eventi di sprint come nei 100 metri piani. Non si può negare l’importanza dell’allenamento per diventare un atleta d’elite, ma questa evidenza (che non è discussa in Peak) fornisce prove convincenti che i fattori genetici contano, molto.
Non c’è dubbio che la formazione è necessaria per diventare un esperto. Le competenze vengono acquisite gradualmente, spesso nel corso di molti anni. Andando avanti, l’obiettivo della ricerca scientifica sulle competenze è quello di identificare tutti i restanti fattori che influenzano l’ottenimento dei diversi risultati.
Articoli di riferimento:
Is Innate Talent a Myth? – https://www.scientificamerican.com/article/is-innate-talent-a-myth/
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